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Che cos’è la cardiomiopatia (o displasia) aritmogena del ventricolo destro (ARVD)

La cardiomiopatia (detta anche displasia) aritmogena del ventricolo destro (ARVD) è una cardiopatia del muscolo cardiaco, caratterizzata clinicamente da aritmie ventricolari potenzialmente letali. La prevalenza è stimata di 1:2.000, anche se in alcuni paesi (Italia e Grecia) la malattia è particolarmente comune (anche 1:700). La malattia consiste in una degenerazione del miocardio ventricolare, prevalentemente localizzata al ventricolo destro (VDx), ma che può coinvolgere possibile anche al ventricolo sinistro (VSx). Il tessuto muscolare cardiaco (detto miocardio) viene sostituito da un tessuto fibro-adiposo di tale entità da causare aneurismi (dilatazioni) del ventricolo. Non è agevole stimare la reale prevalenza ed incidenza della ARVD perché i pazienti non sempre sono facilmente inquadrabili dal punto di vista diagnostico. Inoltre talvolta la prima manifestazione della patologia è proprio la morte cardiaca improvvisa e questo complica le indagini epidemiologiche. La prevalenza della malattia è simile nei due sessi, anche se la maggioranza dei pazienti sintomatici è di sesso maschile.

Qual’è la presentazione clinica della ARVD?

La ARVD è una delle cause maggiori di morte improvvisa nei giovani adulti e negli atleti. La sua presentazione clinica solitamente consiste in fenomeni aritmici che variano dalla extrasistolia ventricolare isolata più o meno frequente alla tachicardia o fibrillazione ventricolare (TV/FV). Lo spettro di presentazione è comunque molto variabile, ed include oltre alle aritmie e alle alterazioni globali o segmentali del VDx, anche tipiche alterazioni elettrocardiografiche della depolarizzazione e ripolarizzazione (visibili soprattutto nelle derivazioni precordiali, e una evoluzione in scompenso cardiaco, che può mimare una cardiomiopatia dilatativa di altra origine.

Quali sono le caratteristiche genetiche della ARVD? 

In base alle attuali conoscenze, la ARVD ha una base genetica, e non sono note forme acquisite. Sono stati descritti numerosi geni che, quando mutati, provocano la ARVD. Tra questi rientrano i geni PKP2, DSG2, DSC2, TGFB3, DSP, JUP, TMEM43; più recentemente si sono aggiunti anche i geni LDB3, LMNA, RYR2, TTN e CTNNA3. I geni che causano la malattia codificano per le proteine delle giunzioni cellulari meccaniche (placoglobina, placofilina, desmogleina, desmocolina, desmoplakina). 

Una storia familiare di ARVD è presente in una percentuale che va dal 30 al 50% dei casi. Il più comune pattern di trasmissione è autosomico dominante con penetranza variabile ed espressione fenotipica polimorfica, sebbene sia stato anche descritto un modello autosomico recessivo. La più comune modalità ereditaria della ARVD è di tipo autosomico dominante: è sufficiente possedere mutata una singola copia di un gene-malattia (mutazione in eterozigosi) per risultare affetti. In molte famiglie con ARVD a genotipo noto sono state riscontrate penetranza incompleta (non tutti gli eterozigoti per mutazioni causanti presentano manifestazioni cliniche) ed un’espressività variabile (il quadro clinico può variare anche fra individui correlati geneticamente ed eterozigoti per la medesima mutazione causante). Oltre alla tipica forma con trasmissione autosomica dominante e penetranza variabile, sono state anche osservate forme recessive associate a cheratoderma palmo-plantare e capelli lanosi.

Come viene effettuata la diagnosi di ARVD?

La diagnosi di ARVD solitamente avviene in età giovanile o adulta; A causa dell’evoluzione progressiva della patologia, i pazienti spesso presentano un corredo sintomatologico eterogeneo. Palpitazioni, fatica e sincope, sembrano essere i sintomi più comuni, ma talora sono presenti disturbi aspecifici come dolore addominale e confusione mentale. In alcuni casi però, la prima manifestazione può essere un arresto cardiaco in concomitanza con sforzi fisici intensi, oppure nelle ore notturne. Le principali diagnosi differenziali si pongono con le miocarditi, la cardiomiopatia dilatativa, la sarcoidosi e l’amiloidosi.

La diagnosi dell’ARVD comincia con una buona annotazione anamnestica. Una storia personale di palpitazioni (specie in persone di giovane età), con familiarità per morte improvvisa dovrebbe sempre indurre al sospetto della patologia in questione.

Gli strumenti di elezione per la diagnosi sono i test di imaging, inclusa l’ecografia bidimensionale, l’angiografia e la risonanza magnetica, che rivelano le anomalie strutturali e funzionali. La mappa elettroanatomica permette di individuare le aree a basso voltaggio corrispondenti a un’atrofia del miocardio, con sostituzione grasso-fibrosa.

Displasia aritmogena biventricolare associata ad area di infiltrazione adiposa della parete  laterale distale e dell’apice del ventricolo sinistro.
Figura 2. Displasia aritmogena biventricolare associata ad area di infiltrazione adiposa della parete  laterale distale e dell’apice del ventricolo sinistro.

Quali sono le anomalie elettrocardiografiche tipiche della ARVD?

Dal 50 al 90% dei pazienti presentano anomalie elettrocardiografiche, che includono: 

1) inversione dell’onda T nelle derivazioni precordiali, in soggetti di età > 12 anni ed in assenza di BBDx

2) onda epsilon

3) extrasistoli ventricolari frequenti (>1000 BEV/24 ore) con morfologia a blocco di branca sinistro, 

4) tachicardie ventricolari non sostenute (TVNS) o tachicardie ventricolari sostenute (TVS) con morfologia a blocco di branca sinistro (anche se è possibile riscontrare TV con morfologie differenti).

5) Potenziali tardivi all’ECG ad alta risoluzione

Quali sono i fattori di rischio per la prognosi della ARVD?

I maggiori fattori di rischio per una prognosi infausta sono la giovane età, i precedenti familiari di morte improvvisa giovanile, un QRS maggiore o uguale a 140 ms, l’inversione dell’onda T sul tracciato, l’entità del coinvolgimento del ventricolo destro, il coinvolgimento del ventricolo sinistro, la presenza di tachicardie ventricolari, la storia di sincope o di un precedente arresto cardiaco.

Lo studio elettrofisiologico endocavitario (SEE) è utilizzato per una corretta stratificazione del rischio al fine di valutare la suscettibilità del substrato aritmogeno. Con lo SEE è possibile determinare il tipo di aritmia inducibile, la sua morfologia e la tollerabilità emodinamica. 

Qual è l’evoluzione clinica della ARVD?

La storia naturale dell’ARVD dipende sia dall’instabilità elettrica del substrato sia dalla progressiva disfunzione ventricolare. Con l’evoluzione della patologia si assiste ad una alterazione della contrattilità ventricolare che residua in una insufficienza cardiaca destra o biventricolare. L’interessamento del ventricolo sinistro infatti, sia esso macroscopico o istologico, interessa circa il 70% dei pazienti affetti. Questo coinvolgimento sembra essere età dipendente, e l’esercizio fisico intenso (ad esempio negli atleti agonisti) sembra peggiorare e accelerare l’evoluzione clinica della malattia. E’ quindi raccomandato seguire l’evoluzione clinica con indagini ecocardiografiche seriate. Nella storia naturale comunque potrebbero essere considerate le seguenti fasi: 

1) fase inziale o occulta, caratterizzata da alterazioni strutturali minime, con o senza aritmie ventricolari minori, durante la quale la morte improvvisa potrebbe essere occasionalmente la prima manifestazione di malattia (in particolare durante attività fisica intensa);

2) fase aritmogena, durante la quale le aritmie ventricolari ad origine dal ventricolo destro sono sintomatiche e possono portare ad arresto cardiaco (in presenza o meno di anomalie funzionali del ventricolo); 

3) fase di disfunzione ventricolare destra, con la progressiva comparsa di insufficienza del ventricolo destro dovuta alla progressiva sostituzione del muscolo con tessuto fibroadiposo, con una funzione ventricolare sinistra relativamente conservata; 

4) fase di disfunzione biventricolare, in cui si assiste ad un progressivo coinvolgimento e disfunzione biventricolare. In questa fase l’ARVD può mimare una diversa cardiomiopatia dilatativa e portare a scompenso cardiaco congestizio con tutte le sue relative complicanze quali fibrillazione atriale ed eventi tromboembolici.

Quali sono le terapie della ARVD?

Il principale trattamento della displasia aritmogena è rivolto alla prevenzione della morte cardiaca improvvisa. Sebbene non ci sia modo di curare l’ARVD, è possibile controllare le manifestazioni aritmiche e la disfunzione ventricolare. Le terapie disponibili includono modificazioni dello stile di vita, farmaci antiaritmici, ablazione del substrato aritmico con radiofrequenza, impianto di un defibrillatore automatico (ICD). 

Sebbene non esistano evidenze definitive riguardo le modificazioni dello stile di vita, i pazienti dovrebbero evitare attività fisica intensa, sia per evitare aritmie, che per evitare il sovraccarico ventricolare che può favorire la disfunzione ventricolare.

Nel caso di aritmie possono essere utilizzati i farmaci antiaritmici, che peraltro hanno mostrato un’efficacia limitata. L’amiodarone somministrato per via endovenosa risulta efficace nell’interrompere le tachicardie ventricolari. Altri regimi farmacologici comprendono farmaci betabloccanti, da soli o in associazione con farmaci di classe Ia e Ic, amiodarone in associazione a farmaci di classe II o Ic. 

L’ablazione mediante radiofrequenza è utilizzata in caso di tachicardie ventricolari incessanti o refrattarie al trattamento medico, tachicardie ventricolari ben localizzabili, successivamente all’impianto del defibrillatore per ridurre gli interventi dello stesso. L’efficacia dell’ablazione varia da caso a caso ed a volte è necessaria più di una procedura. Le recidive spesso sono causa dell’evoluzione stessa della patologia che crea nuovi circuiti di rientro.

L’impianto di un defibrillatore in generale è raccomandato nei pazienti, oltre che in prevenzione secondaria in caso di pregresso arresto cardiaco resuscitato, in prevenzione primaria nei soggettivi che hanno inducibilità ad aritmie ventricolari sostenute durante SEE, nei soggetti con aritmie ventricolari non sostenute e storia familiare di morte improvvisa di giovane età e qualora ci sia coinvolgimento del ventricolo sinistro.



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Che cos’è la Cardiomiopatia Dilatativa Familiare (DCM)?

La cardiomiopatia dilatativa familiare (DCM) è una malattia del muscolo cardiaco, caratterizzata dalla dilatazione ventricolare e dalla riduzione della funzione sistolica. I pazienti presentano insufficienza cardiaca, aritmie e aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa (SCD). La prevalenza della DCM è 1/2.500, con un’incidenza di 7/100.000 casi l’anno (anche se probabilmente tale incidenza è sottostimata). In molti casi, la malattia è ereditaria e viene, perciò, definita DCM familiare (FDCM). La FDCM corrisponde al circa 20-48% dei casi di DCM (a seconda delle diverse casistiche), solitamente con trasmissione autosomica dominante. La DCM è causata da mutazioni nei geni che codificano per le proteine del citoscheletro e del sarcomero delle cellule muscolari cardiache. Uno dei geni più importanti è LMNA, responsabile anche di altre forme aritmogene (Bengala et al, 2019).

Qual è la presentazione clinica della Cardiomiopatia Dilatativa (DCM)?

La DCM è una patologia progressiva e solitamente irreversibile del muscolo miocardico, che conduce a disfunzione sistolica e dilatativa del ventricolo sinistro. Clinicamente si può manifestare con scompenso cardiaco, aritmie sopraventricolari e ventricolari, tromboembolismo e morte improvvisa. La diagnosi di DCM richiede l’esclusione di una causa secondaria, in particolare della causa ischemica. Il tasso di mortalità della malattia è elevato (12-20%), anche nella popolazione che riceve un trattamento medico ottimale, dovuto principalmente a scompenso cardiaco ed aritmie ventricolari che danno SCD. I sintomi della DCM sono quelli dello scompenso cardiaco (debolezza, facile faticabilità, respiro affannoso in occasione di sforzi talora anche modesti, tosse secca persistente, gonfiore addominale e degli arti inferiori, aumento improvviso di peso causato dalla ritenzione idrica, perdita di appetito) e delle aritmie cardiache (palpitazioni, capogiri o svenimenti).

Quali sono i test diagnostici per la Cardiomiopatia Dilatativa (DCM)?

In presenza dei sintomi sospetti per DCM sono consigliati i seguenti esami:

Test ematochimici: Un marker di rischio è il dosaggio del BNP (brain natriuretic peptide), che è elevato in presenza di scompenso cardiaco; possono essere presenti anche alterazioni degli indici di funzione epatica e renale, espressione della sofferenza di questi organi dovuta all’insufficienza cardiaca; nei casi più gravi sono presenti iposodiemia, ipokaliemia e anemia.

Radiografia del torace (RX torace): fornisce informazioni sule dimensioni del cuore e sulla presenza e il grado della congestione polmonare.

ECG basale e ECG dinamico secondo Holter: I marker elettrocardiografici di rischio aritmico possono essere la presenza di QRS frammentato e la presenza di micro-alternanza dell’onda T, anche se tali parametri non sono stati ancora valutati in maniera prospettica. Altri marker ECG sono il riconoscimento di aritmie sopraventricolari o ventricolari, in particolare tachicardie ventricolari non sostenute durante registrazione Holter, in particolare Holter prolungato.

Tachicardia ventricolare monomorfa (13 sec) in paziente con DCM (FEVS 25%)
Tachicardia ventricolare monomorfa (13 sec) in paziente con DCM (FEVS 25%)

Ecocardiogramma: È l’esame fondamentale per la diagnosi e il follow-up della DCM, in quanto permette di valutare le dimensioni e lo spessore delle pareti delle camere cardiache, la funzione contrattile (misurata con un parametro chiamato “frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FEVS) e il funzionamento delle valvole, e di stimare la pressione polmonare. La presenza di una FEVS<35% è consideratoun indice prognosnegativo, associato ad un elevato rischio di SCD.

Test da sforzo con consumo di ossigeno: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma mentre il paziente compie un esercizio fisico, generalmente camminando su un tapis roulant o pedalando su una cyclette; si applica inoltre un boccaglio per la misurazione dei gas espirati. Il test permette valutare la resistenza all’esercizio del soggetto, la presenza di desaturazione durante esercizio, la comparsa di segni di ischemia e di aritmie sotto sforzo.

Anngio TAC coronarica e Coronarografia: tali esami servono ad escludere la presenza di una malattia coronarica significativa o la presenza di anomalie congenite delle coronarie.

Risonanza nucleare magnetica cardiaca (cRNM) con mezzo di contrasto: L’esame consente una miglior valutazione del ventricolo destro rispetto all’Ecocardiogramma, e inoltre valuta la struttura del miocardio, permettendo così di identificare la presenza di processi infiammatori e di aree di fibrosi (cicatrici) intramiocardiche. La fibrosi miocardica è una caratteristica significativa della cardiomiopatia dilatativa, e fornisce il substrato per le aritmie ventricolari, in quanto predispone alla formazione di circuiti di rientro. La fibrosi è generalmente localizzata nella parete miocardiaca (mid-wall fibrosis).

Cateterismo cardiaco: è una metodica invasiva che si basa sull’introduzione di catetere attraverso un vaso venoso fino alle cavità destre del cuore, che consente di acquisire informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue e sulla pressione all’interno delle camere cardiache destre e sulle pressioni polmonari. Si tratta di un esame riservato alle forme più gravi nelle quali è necessario verificare il grado di aumento delle pressioni di riempimento ventricolari e della riduzione della portata cardiaca (ossia della quantità di sangue pompata dal cuore) e della ipertensione polmonare.

Biopsia endomiocardica: si effettua durante l’esecuzione del cateterismo cardiaco mediante l’utilizzo di uno strumento chiamato biotomo. In genere le biopsie vengono effettuate sul lato destro del setto interventricolare. È indicata nei pazienti con cardiomiopatia dilatativa di recente riscontro e scompenso cardiaco “fulminante” per individuare la presenza di miocardite e, nel caso, identificare il tipo di cellule che sostengono il processo infiammatorio, perché ciò ha un importante valore prognostico.

Quali sono i trattamenti per la Cardiomiopatia Dilatativa (DCM)?

Il trattamento della DCM è essenzialmente la terapia per curare e prevenire l’insufficienza cardiaca e delle aritmie, per migliorare i sintomi e aumentare la sopravvivenza. Attualmente la terapia per l’insufficienza cardiaca prevede misure generiche (assunzione controllata di sale e liquidi, trattamento dell’ipertensione, limitazione dell’apporto di alcol, controllo del peso corporeo, moderato esercizio fisico), seguito dall’uso di farmaci e di dispositivi cardiaci:

Farmaci: ACE-inibitori, i sartani, i beta-bloccanti, gli anti-aldosteronici, diuretici, digossina.

Dispositivi cardiaci: pacemaker (PM), resincronizzatori (CRT), defribrillatori cardiaci intravenosi (ICD).

Nei casi refrattari ai trattamenti medici ed elettrici sono indicati l’impianto di dispositivi di assistenza ventricolare sinistra (LVAD) e il trapianto di cuore.

Quali sono le attuali raccomandazione per la prevenzione della morte improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa?

Le attuali Linee Guida della Società Europea di Cardiologia (ESC 2015) raccomandano l’utilizzo di un defibrillatore impiantabile (ICD) in prevenzione primaria in pazienti con DCM in classe New York Heart Association (NYHA) II e III e con una frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FEVS) inferiore o uguale a 35%. La FEVS è un importante predittore di aritmie ventricolare maligne nei pazienti con DCM. Il rischio assoluto di SCD aumenta con il peggiorare della FEVS, anche alcuni recenti trials (ad esempio lo studio DANISH) non hanno dimostrato una riduzione significativa della mortalità nei pazienti con impianto di ICD in prevenzione primaria, in confronto con la sola terapia medica ottimale (OMT). In ogni caso, le attuali linee guida consigliano l’impianto di ICD dopo almeno 3 mesi di terapia farmacologica ottimale con ACE inibitori, beta-bloccanti e diuretici, dal momento che in alcuni pazienti si può osservare un recupero più o meno parziale della FEVS dopo almeno 3 mesi dopo OMT.

Qual è il ruolo della genetica nella cardiomiopatia dilatativa?

La DCM è associata a mutazioni dei geni che codificano per le proteine del citoscheletro e del sarcomero delle cellule muscolari cardiache. Uno dei geni più importanti è LMNA, che codifica per la Lamina A e C. I pazienti in cui viene identifica la mutazione genetica sembrano essere a maggiore rischio di SCD con una mortalità del 40% a 5 anni. Pertanto nei pazienti portatori di una mutazione genetica del gene LMNA è raccomandato l’impianto più precoce di un ICD.

In caso di cardiomiopatie dilatative familiari è raccomandato la ricerca delle mutazioni genetiche associate allo sviluppo di cardiomiopatia dilatativa. Nel caso venga identificata una mutazione genetica associata allo sviluppo di cardiomiopatia dilatativa, è naturalmente raccomandato lo studio dei familiari, per identificare altri possibili soggetti affetti all’interno della famiglia: coloro in cui la ricerca della mutazione risulterà negativa potranno essere rassicurati che non svilupperanno la patologia, viceversa i portatori sani di una eventuale mutazione dovranno essere seguiti nel tempo (in particolare con ecocardiogramma e monitoraggio ECG), per identificare l’eventuale comparsa clinica della malattia.

Per consultare Orphanet

https://www.orpha.net/consor/cgi-bin/OC_Exp.php?Lng=IT&Expert=154

Per riferimenti bibliografici:

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed?Db=pubmed&Cmd=Search&Term=cardiomyopathy,congestive%5Bmajr%5D+AND+familial

Se vuoi saperne di più > Cardiogenetica





“Trattiamo le aritmie cardiache dallo studio dei geni all’ablazione transcatetere“



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